Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me! (IV domenica di Pasqua, di P. Marco Pasquali)
Questa domenica del periodo pasquale viene chiamata “La domenica del buon pastore” perché la liturgia ci pone di fronte ai passi biblici che si riferiscono a questa immagine, cara alla tradizione ebraica, che Gesù da applicato a sé. In questo senso l’immagine del “buon pastore” non ci fa riflettere solo sulla figura del pastore, ma sulla relazione pastore/gregge.
Dobbiamo però iniziare dal correggere la percezione che la modernità ha di questa immagine è il fattore culturale: nel nostro mondo, ormai lontano da quello rurale, l’immagine del gregge è essenzialmente negativa. Ad essa tendiamo ad associare concetti come massificazione, mancanza di personalità, incapacità di gestirsi, ecc. Ma il suo significato nella cultura biblica è diverso.
Prima va tenuto conto che l’economia del popolo di Israele era centrata proprio sulla pastorizia: il terreno della Giudea è caratterizzato da scarsità di acqua e dall’ampia presenza di deserti pietrosi, per cui è poco adatto all’agricoltura, mentre si presta per l’allevamento di pecore. Gli ovini erano letteralmente oro su quattro zampe. Per tale ragione essere paragonati ad un gregge significava essere considerati il bene più prezioso, che però aveva bisogno di essere difeso. Infatti la continua necessità di trovare terreni favorevoli in mezzo a queste terre desolate, spingeva i pastori ad avventurarsi in mezzo a luoghi abitati da animali selvaggi.
Chi ha avuto l’opportunità di interagire con pecore si è accorto che non sono esattamente “buone”: sono testarde, a volte anche aggressive, caricando con la testa quelli che considerano nemici. Hanno bisogno di difesa perché la loro struttura fisica è più debole rispetto a quella nemici, dotati di artigli e zanne affilati. Ecco che il “buon pastore” è colui che rende possibile non solo il soddisfacimento dei suoi desideri (l’erba fresca non immediatamente disponibile), ma anche la difesa di fronte ai mali che sfuggono la sua portata.
Non viene però presentato come un agente esterno che si limita a gestire i confini del gregge: egli conosce le pecore una per una e loro conoscono la sua voce. C’è un rapporto di reciprocità che allude all’intimità, che riesce ad andare oltre la natura sospettosa di questo animale. Ma questa relazione poi si allarga anche in modo orizzontale: le pecore che normalmente tendono a disperdersi in mille direzioni se non hanno una guida, riescono a diventare “un solo gregge” grazie al pastore, a ritrovarsi insieme all’interno di un’appartenenza reciproca, dove l’essere conosciuti dal pastore è proprio garanzia di unicità e non certo di massificazione.
traduzione spagnolo e francese
commento portoghese: